Giovanni XXIII, il centro congressi, sta sul grande viale bergamasco che unisce le due città, differenti per altitudine, connettendo con una lunga linea nera, dapprima retta poi tortuosa, la grande stazione FFSS con la porta stemmata delle mura venete. Due file parallele di alberi schermano i pudici edifici liberty per lasciare la vista ai due propilei, fascisti e bandierati con eleganza, che spezzano la continuità di quello che la gente del posto, memoria linguistica, chiama ancora il sentierone.
L'ambiziosa aspirante capitale europea della cultura 2019 ospita, al suo Festival della cultura, il sociologo ebreo-polacco Zygmunt Bauman, conosciuto soprattutto per i suoi studi sulla modernità liquida.
Mi sistemo, scomodo, in terza fila mentre il relatore principale, prof. Giulio Brotti introduce l'ospite. Tralascio volutamente le melensaggini accademiche, più stucchevoli che di rito, per sostituirmi su carta alla voce del relatore, presentando Bauman in maniera meno venerante.
Ebreo nato a Poznań nel 1925, all'epoca dell'invasione tedesca si unì alla Prima Armata Polacca sotto controllo sovietico, portando a casa la vita, la famiglia e una croce al valor militare. Sul finire della guerra, restò al servizio dei servizi polacchi per contrastare l'avanzata dei nazionalisti ucraini capeggiati dal collaborazionista Stepan Bandera, tuttora principale riferimento ideologico del partito neonazista Pravy Sektor. Partito che, colgo l'occasione per ricordarlo, sostiene dall'interno del parlamento il governo insediatosi a Kiev dopo Maidan a dispone di un apparato paramilitare implicato negli assassinii di Odessa.
Ad acque più calme, terminò gli studi di sociologia e filosofia all'Università di Varsavia, avendo come insegnante l'altro grande sociologo polacco Stanisław Ossowski.
Di orientamento marxista, dopo la Primavera di Praga i forti contrasti con il governo polacco lo indussero ad andarsene prima a Tel Aviv e poi in Inghilterra, ottenendo la cittadinanza e, soprattutto dagli anni '90, fama mondiale come uno dei grandi ispiratori, seppur indirettamente, del movimento noglobal.
Brotti conclude il discorso lamentando i pericoli della xenofobia, dell'ignoranza e del fanatismo.
Tre termini che, anche se a dire il vero ho letto un solo libro di Bauman (Modus vivendi, 2008, NdR), mai compaiono nelle sue pagine. Centoventisei pagine della Laterza e un improvviso timore di retorica spicciola mi fanno desiderare che la lectio magistralis di Bauman inizi alla rapida.
Sale sul palco un vecchio, magro e canuto, di statura inquieta e occhi che non guardano un punto preciso. Con stupore di principiante, mi rendo conto che non esiste traduttore dal vivo, ma tutto il pubblico possiede, rimediate chissà dove, delle cuffie voluminose per poter comprendere l'accento contorto dell'inglese di Poznań. Mi perdo le prime tre frasi, spero che le mie orecchie e le corde vocali di Bauman si abituino presto alla lingua della globalizzazione.
Parte la lectio, e la prende larga.
Oggi, come circa trecento anni fa, sta avvenendo un cambiamento inaspettato. Citando Roger Cotterrell (sociologo del diritto all'Università di Londra e membro dell'Accademia Britannica, NdR), ci ritroviamo a metà di un passo montuoso da scalare, e stiamo su una parete tanto ripida che non è possibile tornare indietro. Dobbiamo continuare a scalare, anche e perché non sappiamo cosa ci aspetta dall'altra parte. Non siamo neppure sicuri sul per chi stiamo scalando.
Siamo nel mezzo di quello che Gramsci, citando a sua volta un passo di Tito Livio, chiama interregnum: i vecchi metodi per fare le cose non funzionano più, nuovi metodi non sono ancora stati inventati. Una situazione analoga all'agonia dell'ancien régime.
Ricordo di quel periodo non solo Gramsci, ma anche lo slancio dei primi futuristi, che incitavano a non scendere dal promontorio estremo dei secoli. Forse siamo veramente ridiscesi, forse ci siamo gettati con volontà ambigua, forse dal lato sbagliato, tentando di aggrapparci alla parete verticalmente liscia per non cadere in un crepaccio, spinoso ai lati e minato sul fondo.
Trecento anni fa, solo alcuni riuscirono a cogliere ciò che stava avvenendo, e ciò che stava avvenendo era qualcosa di differente da ogni evento accaduto fino ad allora. Era l'arrivo della modernità. Nel 1555, ad Augsburg, in un'Europa attraversata da guerre e tensioni d'ogni genere, religiose, politiche, economiche, alcuni uomini trovarono una formula risolutiva, che verrà applicata a pieno titolo soltanto con la pace di Westfalia del 1648: cuius regio, eius religio.
Era nata l'idea della sovranità territoriale dello stato-nazione. Una svolta storica, con conseguenze di portata mondiale. Lo stato-nazione si reggeva su tre colonne: la sovranità militare, la sovranità economica e quella che potremmo chiamare sovranità culturale (l'enfasi sul patrimonio letterario in lingua nazionale, ad esempio, è uno dei materiali componenti la terza colonna, NdR).
Oggi stiamo assistendo al crollo di tutte e tre le colonne, ad opera della globalizzazione.
Stiamo assistendo al divorzio tra politica (il discutere sul fare) e potere (il poter fare).
Le istituzioni politiche, confinate localmente entro i confini statali, sono costrette ad affrontare problemi di livello globale senza avere l'abilità per farlo. La sovranità, da de facto si sta dissolvendo in un mero de iure, quasi allo stadio pre-moderno. Il potere reale si situa al di fuori del controllo politico, così le istituzioni delegano sempre di più le proprie competenze ai capricci del Mercato. Stiamo assistendo all'evaporazione del potere politico.
Un'evaporazione che porta al progressivo regresso dei diritti, trasformando lo Stato, cito Modus vivendi dello stesso Bauman, in uno Stato di sicurezza fisica individuale, invece che in uno Stato del welfare. Allo Stato occidentale avanzato, secondo Bauman che porta il caso limite degli Stati Uniti, si potrà chiedere solamente la tutela dell'incolumità individuale, la sicurezza che soppianta la tensione verso l'avanzamento dello Stato di diritto. Dalla modernità solida si passa alla modernità liquida.
Come fare, quindi, per recuperare il controllo? È un problema, perché c'è una mutua inadeguatezza di mezzi e di fini, e i veri fini trascendono i mezzi.
Sembrano delinearsi, come reazione, due tendenze antitetiche. La prima, la più positiva, è la solidarietà esplosiva: quella che crea il movimento degli indignados spagnoli, di Occupy Wall Street. Ancora però non sappiamo se questi movimenti resteranno degli esperimenti o diventeranno più incisivi, perché tutto il mondo ha notato Occupy, tranne Wall Street...
La seconda è la tendenza implosiva a costruire confini. Ovunque nel mondo si tende, a partire dall'architettura urbana, a ghettizzare i luoghi comuni, a costruire muri tra le località e persino tra il vicinato. L'esempio più evidente è il fenomeno delle comunità recintate in Nord e Sudamerica, dove l'élite si trincera all'interno chiudendo fuori il vicino indesiderato. Ma la modernità liquida costruisce prima di tutto confini individuali. La concomitanza fisica di diverse classi di individui in uno stesso luogo è oggi del tutto evitabile grazie alla virtualità, ed accuratamente evitata da parte, in primo luogo, delle élite globalizzate.
Il trionfo globale del mercato libero ha inoltre creato le immigrazioni di massa, immigrazioni di individui scartati dalla modernità, perché null'altro sono se non prodotti di scarto, scarti di produzione all'interno del processo di consumo.
Le due tendenze trovano, nelle pagine e nei discorsi di Bauman, un corrispettivo nei due termini mixofilia e mixofobia. Sono i due poli d'atteggiamento del cittadino liquido moderno, quello che vive in una grande città metropolitana. La prima è quel sentimento entusiasta, a volte ingenuo, che spinge l'individuo a sperimentare tutto ciò che percepisce come diverso, accogliendolo senza condizioni. La seconda è ovviamente l'opposto, la paura indiscriminata di tutto ciò che non corrisponde al già conosciuto.
L'evento di questa sera ha per titolo Fare la pace - i confini del mondo e le speranze degli uomini.
L'ospite polacco tenta, perciò, di abbozzare la sua via.
Un tempo ci si aspettava l'assimilazione culturale dei nuovi venuti, all'interno della cultura locale già esistente. Ora però, nel mondo globale, non esiste più l'idea di superiorità e inferiorità culturale, quindi perché mai uno straniero dovrebbe sentire il desiderio di abbandonare la propria identità tradizionale per diventare cittadino di un altro luogo? Dobbiamo abituarci all'idea di vivere con lo straniero permanente, per noi non c'è scelta. Ai tempi dell'Illuminismo si auspicava una società di culturalmente uguali, ma già allora uno come Lessing aveva intuito che 'la diversità della specie umana resterà per sempre'. Hannah Arendt ha ripreso questa considerazione, valorizzandola, perché il plurale è ciò che permette la creatività umana. Sfruttiamo, quindi, questa nostra creatività per costruire una nuova arte di vivere: la collaborazione informale e aperta.
Dialoghi, senza vincitori e vinti, nessun codice predefinito ma continui compromessi, senza pretendere di possedere a priori la ragione.
Si parla di come costruire la speranza. Ma la speranza non muore e non è mai realmente morta, mai. Un sinonimo perfetto per homo sapiens è homo hoping (suonava bene nell'inglese di Poznań, NdR). Ogni confine tra gli uomini può diventare un legame osmotico, alimentato dalla speranza.
Come avvenne già quando ascoltai Serge Latouche, rimango molto più affascinato dalle analisi che dalle soluzioni. Mi sorprese già allora la diversità di profondità tra la lettura del presente e la proposta per un futuro. Forse, d'altronde, quest'ultimo non è compito della sociologia.
Finita la lectio, si passa ad alcune domande che, al Festival della cultura di Bergamo, sono concordate con l'organizzazione da almeno un paio di giorni. Vale la pena riportarne solo una: "Non crede che ogni analisi sociologica, per quanto profondamente dettagliata, non rischi di risultare inutile, sterile senza l'appoggio di un partito politico?"
Credo che l'appoggio di un partito politico peggiorerebbe la situazione. La sociologia punta alla gente comune, all'individuo perché la società attuale è, prima di tutto, individualizzata (Bauman definisce la sua disciplina come sociologia cordiale, NdR). Il pensiero, citando Adorno, è come un messaggio in una bottiglia lanciata in mare: non sappiamo chi lo leggerà, quando e cosa farà. L'importante è lanciarlo.
La domanda sul possibile carattere sovrastrutturale della cultura è stata tanto confusa quanto la risposta, quindi non tento di riportare il discorso. Riporto invece un'ultima frase che mi è piaciuta.
Credo che il progresso sia un pendolo. Un pendolo che oscilla tra la sicurezza e la libertà. La prima senza la seconda è schiavitù, la seconda senza la prima è catastrofe.
Nel festival dove il contraddittorio è concordato, però, avrei voluto fare una domanda, una domanda fondamentale che stasera nessuno ha pronunciato. Leggendo ed ascoltando Bauman, si percepisce una certa vena di fatalismo, alimentata dalla identificazione, avrei voluto chiedergli quanto giustificata, tra Occidente e mondo. Negli ultimissimi anni la globalizzazione usa-oriented ha subito battute d'arresto molto pesanti da parte dei BRICS, della Russia, della Cina, della Siria, dell'Iran. Unioni economiche e politiche sono nate e fanno sentire la loro voce con sempre più forza: fondi monetari concorrenti dell'FMI, agenzie di rating concorrenziali alle americane, il Patto di Shanghai e l'Unione Eurasiatica in procinto di accogliere mezza Ucraina attraverso l'alleanza con la Russia di Putin. Grandi aziende energetiche di parti diverse di mondo sono di nuovo sotto controllo statale diretto o indiretto. Ognuno di questi fattori, che incidono già sul piano globale, è sottoposto a un potere politico, per quanto distante da quello auspicabile da tre quarti d'Occidente e auspicato dalle sue istituzioni sia economiche che politiche. Zygmunt Bauman non ha sfiorato, nemmeno di striscio, la già attuale multipolarità del potere mondiale. Avrei voluto chiedergli perché non lo ha fatto.
I relatori, in evidente imbarazzo per non aver compreso l'innocente richiesta dell'illustre ospite di venirgli tradotte le domande senza dover indossare delle cuffie enormi, tagliano la lista delle domande che Bauman già può trovare scritte in mano sua, su dei fogli A4.
Brotti, collaboratore dell'adiacente Eco di Bergamo, coglie l'occasione per sottoporre anch'egli una questione all'avventore dell'est.
"Come vede il nuovo papato di Francesco?"
Il pomeriggio stesso ho notato un'iscrizione, non lontano dal municipio, sull'altro grande viale che incrocia ortogonalmente il sentierone. Una targa a un altro Francesco, bergamasco ex-garibaldino globale ucciso da un cosacco, combattente a fianco dei polacchi contro le truppe zariste. Francesco Nullo, noglobal della prima ora, morì in dialetto, sussurrando "sò mort" a Krzykawka accanto agli zuavi della morte.
Vox populi bergomensis dice che la sua città, con i preti, è così. Certifica l'asserzione congiungendo per lungo gli indici, facendoli toccare almeno un paio di volte. Nell'uscire noto, alzando lo sguardo, che la sala alabastro è decorata con passi biblici.
Principio della sapienza è il desiderio d'istruzione; la cura dell'istruzione è l'amore - Sapienza 6,17.
Resto affascinato, ancora una volta, solo a metà.
24F
L'ambiziosa aspirante capitale europea della cultura 2019 ospita, al suo Festival della cultura, il sociologo ebreo-polacco Zygmunt Bauman, conosciuto soprattutto per i suoi studi sulla modernità liquida.
Mi sistemo, scomodo, in terza fila mentre il relatore principale, prof. Giulio Brotti introduce l'ospite. Tralascio volutamente le melensaggini accademiche, più stucchevoli che di rito, per sostituirmi su carta alla voce del relatore, presentando Bauman in maniera meno venerante.
Ebreo nato a Poznań nel 1925, all'epoca dell'invasione tedesca si unì alla Prima Armata Polacca sotto controllo sovietico, portando a casa la vita, la famiglia e una croce al valor militare. Sul finire della guerra, restò al servizio dei servizi polacchi per contrastare l'avanzata dei nazionalisti ucraini capeggiati dal collaborazionista Stepan Bandera, tuttora principale riferimento ideologico del partito neonazista Pravy Sektor. Partito che, colgo l'occasione per ricordarlo, sostiene dall'interno del parlamento il governo insediatosi a Kiev dopo Maidan a dispone di un apparato paramilitare implicato negli assassinii di Odessa.
Ad acque più calme, terminò gli studi di sociologia e filosofia all'Università di Varsavia, avendo come insegnante l'altro grande sociologo polacco Stanisław Ossowski.
Di orientamento marxista, dopo la Primavera di Praga i forti contrasti con il governo polacco lo indussero ad andarsene prima a Tel Aviv e poi in Inghilterra, ottenendo la cittadinanza e, soprattutto dagli anni '90, fama mondiale come uno dei grandi ispiratori, seppur indirettamente, del movimento noglobal.
Brotti conclude il discorso lamentando i pericoli della xenofobia, dell'ignoranza e del fanatismo.
Tre termini che, anche se a dire il vero ho letto un solo libro di Bauman (Modus vivendi, 2008, NdR), mai compaiono nelle sue pagine. Centoventisei pagine della Laterza e un improvviso timore di retorica spicciola mi fanno desiderare che la lectio magistralis di Bauman inizi alla rapida.
Sale sul palco un vecchio, magro e canuto, di statura inquieta e occhi che non guardano un punto preciso. Con stupore di principiante, mi rendo conto che non esiste traduttore dal vivo, ma tutto il pubblico possiede, rimediate chissà dove, delle cuffie voluminose per poter comprendere l'accento contorto dell'inglese di Poznań. Mi perdo le prime tre frasi, spero che le mie orecchie e le corde vocali di Bauman si abituino presto alla lingua della globalizzazione.
Parte la lectio, e la prende larga.
Oggi, come circa trecento anni fa, sta avvenendo un cambiamento inaspettato. Citando Roger Cotterrell (sociologo del diritto all'Università di Londra e membro dell'Accademia Britannica, NdR), ci ritroviamo a metà di un passo montuoso da scalare, e stiamo su una parete tanto ripida che non è possibile tornare indietro. Dobbiamo continuare a scalare, anche e perché non sappiamo cosa ci aspetta dall'altra parte. Non siamo neppure sicuri sul per chi stiamo scalando.
Siamo nel mezzo di quello che Gramsci, citando a sua volta un passo di Tito Livio, chiama interregnum: i vecchi metodi per fare le cose non funzionano più, nuovi metodi non sono ancora stati inventati. Una situazione analoga all'agonia dell'ancien régime.
Ricordo di quel periodo non solo Gramsci, ma anche lo slancio dei primi futuristi, che incitavano a non scendere dal promontorio estremo dei secoli. Forse siamo veramente ridiscesi, forse ci siamo gettati con volontà ambigua, forse dal lato sbagliato, tentando di aggrapparci alla parete verticalmente liscia per non cadere in un crepaccio, spinoso ai lati e minato sul fondo.
Trecento anni fa, solo alcuni riuscirono a cogliere ciò che stava avvenendo, e ciò che stava avvenendo era qualcosa di differente da ogni evento accaduto fino ad allora. Era l'arrivo della modernità. Nel 1555, ad Augsburg, in un'Europa attraversata da guerre e tensioni d'ogni genere, religiose, politiche, economiche, alcuni uomini trovarono una formula risolutiva, che verrà applicata a pieno titolo soltanto con la pace di Westfalia del 1648: cuius regio, eius religio.
Era nata l'idea della sovranità territoriale dello stato-nazione. Una svolta storica, con conseguenze di portata mondiale. Lo stato-nazione si reggeva su tre colonne: la sovranità militare, la sovranità economica e quella che potremmo chiamare sovranità culturale (l'enfasi sul patrimonio letterario in lingua nazionale, ad esempio, è uno dei materiali componenti la terza colonna, NdR).
Oggi stiamo assistendo al crollo di tutte e tre le colonne, ad opera della globalizzazione.
Stiamo assistendo al divorzio tra politica (il discutere sul fare) e potere (il poter fare).
Le istituzioni politiche, confinate localmente entro i confini statali, sono costrette ad affrontare problemi di livello globale senza avere l'abilità per farlo. La sovranità, da de facto si sta dissolvendo in un mero de iure, quasi allo stadio pre-moderno. Il potere reale si situa al di fuori del controllo politico, così le istituzioni delegano sempre di più le proprie competenze ai capricci del Mercato. Stiamo assistendo all'evaporazione del potere politico.
Un'evaporazione che porta al progressivo regresso dei diritti, trasformando lo Stato, cito Modus vivendi dello stesso Bauman, in uno Stato di sicurezza fisica individuale, invece che in uno Stato del welfare. Allo Stato occidentale avanzato, secondo Bauman che porta il caso limite degli Stati Uniti, si potrà chiedere solamente la tutela dell'incolumità individuale, la sicurezza che soppianta la tensione verso l'avanzamento dello Stato di diritto. Dalla modernità solida si passa alla modernità liquida.
Come fare, quindi, per recuperare il controllo? È un problema, perché c'è una mutua inadeguatezza di mezzi e di fini, e i veri fini trascendono i mezzi.
Sembrano delinearsi, come reazione, due tendenze antitetiche. La prima, la più positiva, è la solidarietà esplosiva: quella che crea il movimento degli indignados spagnoli, di Occupy Wall Street. Ancora però non sappiamo se questi movimenti resteranno degli esperimenti o diventeranno più incisivi, perché tutto il mondo ha notato Occupy, tranne Wall Street...
La seconda è la tendenza implosiva a costruire confini. Ovunque nel mondo si tende, a partire dall'architettura urbana, a ghettizzare i luoghi comuni, a costruire muri tra le località e persino tra il vicinato. L'esempio più evidente è il fenomeno delle comunità recintate in Nord e Sudamerica, dove l'élite si trincera all'interno chiudendo fuori il vicino indesiderato. Ma la modernità liquida costruisce prima di tutto confini individuali. La concomitanza fisica di diverse classi di individui in uno stesso luogo è oggi del tutto evitabile grazie alla virtualità, ed accuratamente evitata da parte, in primo luogo, delle élite globalizzate.
Il trionfo globale del mercato libero ha inoltre creato le immigrazioni di massa, immigrazioni di individui scartati dalla modernità, perché null'altro sono se non prodotti di scarto, scarti di produzione all'interno del processo di consumo.
Le due tendenze trovano, nelle pagine e nei discorsi di Bauman, un corrispettivo nei due termini mixofilia e mixofobia. Sono i due poli d'atteggiamento del cittadino liquido moderno, quello che vive in una grande città metropolitana. La prima è quel sentimento entusiasta, a volte ingenuo, che spinge l'individuo a sperimentare tutto ciò che percepisce come diverso, accogliendolo senza condizioni. La seconda è ovviamente l'opposto, la paura indiscriminata di tutto ciò che non corrisponde al già conosciuto.
L'evento di questa sera ha per titolo Fare la pace - i confini del mondo e le speranze degli uomini.
L'ospite polacco tenta, perciò, di abbozzare la sua via.
Un tempo ci si aspettava l'assimilazione culturale dei nuovi venuti, all'interno della cultura locale già esistente. Ora però, nel mondo globale, non esiste più l'idea di superiorità e inferiorità culturale, quindi perché mai uno straniero dovrebbe sentire il desiderio di abbandonare la propria identità tradizionale per diventare cittadino di un altro luogo? Dobbiamo abituarci all'idea di vivere con lo straniero permanente, per noi non c'è scelta. Ai tempi dell'Illuminismo si auspicava una società di culturalmente uguali, ma già allora uno come Lessing aveva intuito che 'la diversità della specie umana resterà per sempre'. Hannah Arendt ha ripreso questa considerazione, valorizzandola, perché il plurale è ciò che permette la creatività umana. Sfruttiamo, quindi, questa nostra creatività per costruire una nuova arte di vivere: la collaborazione informale e aperta.
Dialoghi, senza vincitori e vinti, nessun codice predefinito ma continui compromessi, senza pretendere di possedere a priori la ragione.
Si parla di come costruire la speranza. Ma la speranza non muore e non è mai realmente morta, mai. Un sinonimo perfetto per homo sapiens è homo hoping (suonava bene nell'inglese di Poznań, NdR). Ogni confine tra gli uomini può diventare un legame osmotico, alimentato dalla speranza.
Come avvenne già quando ascoltai Serge Latouche, rimango molto più affascinato dalle analisi che dalle soluzioni. Mi sorprese già allora la diversità di profondità tra la lettura del presente e la proposta per un futuro. Forse, d'altronde, quest'ultimo non è compito della sociologia.
Finita la lectio, si passa ad alcune domande che, al Festival della cultura di Bergamo, sono concordate con l'organizzazione da almeno un paio di giorni. Vale la pena riportarne solo una: "Non crede che ogni analisi sociologica, per quanto profondamente dettagliata, non rischi di risultare inutile, sterile senza l'appoggio di un partito politico?"
Credo che l'appoggio di un partito politico peggiorerebbe la situazione. La sociologia punta alla gente comune, all'individuo perché la società attuale è, prima di tutto, individualizzata (Bauman definisce la sua disciplina come sociologia cordiale, NdR). Il pensiero, citando Adorno, è come un messaggio in una bottiglia lanciata in mare: non sappiamo chi lo leggerà, quando e cosa farà. L'importante è lanciarlo.
La domanda sul possibile carattere sovrastrutturale della cultura è stata tanto confusa quanto la risposta, quindi non tento di riportare il discorso. Riporto invece un'ultima frase che mi è piaciuta.
Credo che il progresso sia un pendolo. Un pendolo che oscilla tra la sicurezza e la libertà. La prima senza la seconda è schiavitù, la seconda senza la prima è catastrofe.
Nel festival dove il contraddittorio è concordato, però, avrei voluto fare una domanda, una domanda fondamentale che stasera nessuno ha pronunciato. Leggendo ed ascoltando Bauman, si percepisce una certa vena di fatalismo, alimentata dalla identificazione, avrei voluto chiedergli quanto giustificata, tra Occidente e mondo. Negli ultimissimi anni la globalizzazione usa-oriented ha subito battute d'arresto molto pesanti da parte dei BRICS, della Russia, della Cina, della Siria, dell'Iran. Unioni economiche e politiche sono nate e fanno sentire la loro voce con sempre più forza: fondi monetari concorrenti dell'FMI, agenzie di rating concorrenziali alle americane, il Patto di Shanghai e l'Unione Eurasiatica in procinto di accogliere mezza Ucraina attraverso l'alleanza con la Russia di Putin. Grandi aziende energetiche di parti diverse di mondo sono di nuovo sotto controllo statale diretto o indiretto. Ognuno di questi fattori, che incidono già sul piano globale, è sottoposto a un potere politico, per quanto distante da quello auspicabile da tre quarti d'Occidente e auspicato dalle sue istituzioni sia economiche che politiche. Zygmunt Bauman non ha sfiorato, nemmeno di striscio, la già attuale multipolarità del potere mondiale. Avrei voluto chiedergli perché non lo ha fatto.
I relatori, in evidente imbarazzo per non aver compreso l'innocente richiesta dell'illustre ospite di venirgli tradotte le domande senza dover indossare delle cuffie enormi, tagliano la lista delle domande che Bauman già può trovare scritte in mano sua, su dei fogli A4.
Brotti, collaboratore dell'adiacente Eco di Bergamo, coglie l'occasione per sottoporre anch'egli una questione all'avventore dell'est.
"Come vede il nuovo papato di Francesco?"
Il pomeriggio stesso ho notato un'iscrizione, non lontano dal municipio, sull'altro grande viale che incrocia ortogonalmente il sentierone. Una targa a un altro Francesco, bergamasco ex-garibaldino globale ucciso da un cosacco, combattente a fianco dei polacchi contro le truppe zariste. Francesco Nullo, noglobal della prima ora, morì in dialetto, sussurrando "sò mort" a Krzykawka accanto agli zuavi della morte.
Vox populi bergomensis dice che la sua città, con i preti, è così. Certifica l'asserzione congiungendo per lungo gli indici, facendoli toccare almeno un paio di volte. Nell'uscire noto, alzando lo sguardo, che la sala alabastro è decorata con passi biblici.
Principio della sapienza è il desiderio d'istruzione; la cura dell'istruzione è l'amore - Sapienza 6,17.
Resto affascinato, ancora una volta, solo a metà.
24F